Miti e Leggende

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La Dea Feronia ed il culto NarneseGli spiriti della NaturaIl tesoro di Ponte CardonaSull'acquedotto della Formina...

La  Dea Feronia personificava l’eterna primavera, protettrice delle acque sorgive. Era circondata da un culto ed un amore speciale. La Sorgente Feronia è antichissima e risale ai tempi preromani. Essa è situata poco discosta dalla Rocca, sullo stesso monte che sovrasta Narni. Era ‘dedicata alla dea Feronia, una delle divinità più antiche della stirpe Umbro-Sabina, venerata prima della egemonia romana, tra gli Umbri, i Sabini, i Volsci e gli Etruschi. La fonte sacra degli antichi Nequinati era un tempo circondata da un bosco di elci ombrosi, e annesso vi era un tempio e una statua della dea Feronia.

Cotogni nei suoi manoscritti a pagina 15 dice: “Fra li altri tempii che esistevano in Narni, dalla superstizione dei gentili applicati alle false deità, eravi quello del luco e fonte di Feronia in oggi con nome alterato detto quel sito Ferogna. Ivi probabilmente, come in altri luoghi, eravi il tempio e la statua della dea Ferocia…. essendovi anche presentemente un marmo in quel fonte in cui è scolpita una grande fiamma, forse l’insegna di quella antica vanità”. E aggiunge: “La verità si è che quella fonte avendo transito per miniere stimate è di un’acqua molto salubre e grandemente tenuta in pregio si quanto alla sua rara limpidezza, che la prerogativa che ha di facile digestione”. I primi cristiani di Narni dovettero certo abbattere il tempio e distruggere il sacro bosco, perché questo d’allora in poi si chiamò macchia morta, cioè non esistente, come rilevasi da un documento di donazione fatta al Monastero di Farfa, da Berardo figlio del q. Rolando, nobil’uomo del contado narnese e da Maria sua consorte, riportato dall’ illustre storico G. Eroli.

Idest omnia quae ego habeo infra comitatum narniensem, intus civitatem, vel de foris excepto petiam unam terrae ubi dicitur macc1a mortua, quae vocatur Ferone…

(Reg. farf della Vaticana Cardo M. C. LXVIII letto C).

Nel libro 111 cap 143 Si ingiunge che nessuna offesa sia fatta alle donne che vanno ad attingere acqua alla sorgente di Feronia, sia all’andata che al ritorno.

Gli spiriti elementali 

Questi esseri  “ Spiriti Elementali “ vengono anche detti “ Spiriti della Natura” in quanto amano vivere nei boschi, vicino ai corsi d’acqua, fiumi e laghi o in prossimità di solfatare e vulcani.

Gli Spiriti Elementali dell’aria sono chiamati Silfidi, quelli dell’acqua sono le Ninfe, quelli della terra gli Gnomi e quelli del fuoco sono chiamati Salamandre.

I quattro elementi rivestono un ruolo importante in magia, legati alle forze naturali e alla vita stessa in generale. La  tradizione magica più antica ha assegnato agli spiriti degli elementi delle sembianze quasi “umane” allo scopo di avvicinarli alla nostra limitata comprensione in quanto essi sono eterei ed impalpabili e sfuggono a qualsiasi descrizione. Si possono però percepire e soprattutto è possibile accostarvisi con estremo rispetto per assicurarsene la protezione durante lo svolgimento di un rituale. Gli elementi ci circondano e sono dentro di noi come mattoncini vitali e gli Elementali sono l’espressione del loro potere.

Il modo migliore per avvicinarvisi è che per prima cosa non bisogna temerli.

Il rispetto è una condizione fondamentale.

Se rispettiamo la natura sotto ogni sua espressione è possibile che ci ascoltino più volentieri e che siano ben disposti a darci il loro aiuto. Per sua natura la razza umana è alleata con tutte le forze naturali, un essere umano non farebbe mai del male ad animali, natura e a tutto il creato in quanto essa sa che questa è la condizione primaria per poter essere ascoltati ed esauditi. Essere in simbiosi e armonia con il tutto che ci circonda.

Un vecchio frate questuante del convento di Sant’Ubaldo scendeva a piedi dal monte tutti i giorni e raggiungeva Narni per raccogliere le poche offerte che servivano per vivere a lui e ai suoi confratelli.

E tutti i giorni un certo Giovenale che abitava nei pressi di Ponte Cardona, se vedeva che il sacco del frate era vuoto, gli offriva un pane o una gallina e lo ristorava con acqua o vino. Ma un giorno Giovenale vide un frate giovane con una vecchia sacca sulle spalle e capì che l’anziano “amico” era volato in cielo.

Quella stessa notte l’uomo sognò che un frate gli parlava di un tesoro proprio sotto il ponte ed esattamente al centro dell’arco. “Mille e più monete d’argento del tempo di Marco Cocceio Nerva, l’imperatore nato a Narni, oggetti d’oro e pietre preziose in numero tale da diventare ricchi come tutti i nobili del contado messi insieme”. La notte quindi incominciò a scavare e dopo un’ora la pala toccò un oggetto metallico: ci siamo! E scavò con più ardore ma, all’improvviso, il cielo si oscurò e gli animali del bosco iniziarono corse pazzesche per ogni viottolo e una pioggia intensissima fece straripare il piccolo torrente.

Giovenale si salvò per miracolo aggrappandosi al ramo di un albero e subito tutto tornò come prima, ma la buca scavata con tanta fatica si era completamente richiusa. Fu allora che l’uomo ricordò le ultime parole del sogno: “Se lo trovi il tesoro è tuo ma non ti appartiene”. Giovenale capì che, se l’avesse trovato, doveva spartirlo con altri, perché di cose da fare ce n’erano molte e anche i poveri abbondavano. Venuta la notte tornò sotto il ponte e scavò nuovamente una grande buca, proprio nel punto in cui oggi ne esiste una.

Si narra quindi che Giovenale trovò il tesoro e seppe dividerlo con altri, ma, secondo alcuni, il tesoro di Ponte Cardona è ancora lì.

Fonte: Mario Menghini, Terni tra folklore e tradizione, Morphema Editrice, Terni 2016 (ex. M. Canonica, Percorsi reali tra magici itinerari, Thyrus, Terni 2005, pag. 166).

La prima leggenda che si narra riguarda la tecnica costruttiva.

“Sembra che a costruire la Formina ed il ponte detto di Augusto, sulla Flaminia nei pressi di Narni, fossero due fratelli ingegneri, nello stesso periodo, che per passati dissidi non si rivolgevano più parola. Le loro mogli erano però in buoni rapporti e spesso si incontravano e parlavano dei problemi famigliari.

Durante il corso di questi due grandi cantieri, si presentarono ad entrambi i tecnici dei problemi, che sembravano insormontabili. Quello addetto alla costruzione del ponte non riusciva a legare bene fra loro le grandi pietre squadrate, mentre l’altro aveva problemi con l’acqua che non riusciva a scorrere perfettamente nel cunicolo.

I due ingegneri confidarono queste difficoltà alle rispettive mogli, le quali, nei loro periodici incontri, si scambiarono le brutte notizie, che poi arrivarono all’orecchio di ciascun marito. Quello che soprintendeva i lavori del ponte, con disprezzo, disse alla moglie che il fratello era un incompetente perché non sapeva che per far correre l’acqua nella galleria era necessario creargli gli occhi, ossia gli spiragli dove far defluire l’aria, che compressa dall’acqua, impediva ad essa di fluire regolarmente a valle. Il fratello ugualmente schernì l’altro perché non sapeva che bastava mettere più calce nell’impasto per far tenere salde fra loro le pietre del ponte.

Furono le mogli a far sapere a ciascuno i suggerimenti dell’altro, così che, messi in pratica, le due grandi opere poterono felicemente essere portate a termine.”

L’altra storia, più breve, riguarda la realizzazione della galleria di Monte Ippolito, la più lunga, che conserva al suo interno il punto di incontro fra la squadra che scavava da monte a quella da valle, una sorta di “S” di raccordo fra i due tronconi.

“Lo scavo della galleria era stato calcolato nei minimi particolari e l’ingegnere addetto era tanto sicuro del suo lavoro che aveva stabilito esattamente il giorno dell’incontro fra le due squadre. Quel giorno però l’incontro non ci fu’ ed egli, per il disonore si tolse la vita, fatto che gli impedì di vedere il congiungimento dei due rami il giorno successivo.

All’interno della galleria, secondo alcuni, o sulla scala che permetteva di scendere nel cunicolo, secondo altri, era murata una lapide dove vi era scritto quante persone avevano lavorato a quell’opera, quanti fili di pane e quante teste di aglio avevano mangiato.”

E’ possibile che le teste o capocce o capi d’aglio, in realtà siano la traduzione di “caput aquae” che, se mal letto da persona che non conosce il latino, potrebbe interpretarsi come “capid’agliae”. Tale ipotesi potrebbe essere collegata ad una epigrafe che, a tutt’oggi sconosciuta, poteva trovarsi lungo il percorso per celebrare la costruzione dell’acquedotto.